L’alfabeto dei luoghi invisibili racconta dei luoghi dell’anima e della vita interiore dei viaggiatori. Un alfabeto del silenzio e della luce, della memoria d’infanzia ed adulta. Nel gioco dei richiami i luoghi del viaggio dipanano una storia d’amore per la vita, per la cultura, per la natura, ma anche verso le proprie radici. Un viaggio di andata e di ritorno tra Francia e Italia, il Carnevale e la rottura della pignatta. Un bambino che racconta il suo viaggio d’emigrato, tra Tolone, la Valle dell’Alvernia, il Dipartimento dell’Allier, la cittadina di Souvegny. P, come Parigi, ma anche come partenza.

 

“P” come partenza, come spazio per il viaggio, come tragitto, come momento per riempire un vuoto, un’assenza. Partenza per un viaggio, senza sapere chi incontrare, cosa fare per restare. Ecco, partire per restare, per non tornare mai più nel luogo di nascita, nel posto delle radici, nei giardini interiori della propria infanzia? Accade, succede. A volte si parte per non tornare più. Il destino incrocia altri destini, altri suoni e musiche, altre parole, altri volti, altre stanze. E la memoria dell’anima comincia a tremare per il lavoro di catalogazione che dovrà affrontare.

Parigi, le parole e le cose, gli orizzonti. 1998. I fiori per Lady Diana a Pont de l’Alma. Il via vai di gente. Il caldo d’agosto. La scia dei ricordi e delle emozioni per il viaggio del 1958 di andata a Meillers. P, come partenza, come andata e ritorno. Il ritorno c’è stato, ma anche la scoperta della città vuota, del nulla, il deserto per l’accoglienza della popolazione indigena.

E poi, la maschera per la festa del carnevale del 1963. Febbraio duro e amaro. La rottura della pignatta. La pignatta in frantumi e le parole degli adulti, il sapore del vino, la dolcezza delle noci, il profumo dei mandarini e del melograno. E i confetti carnascialeschi. Parigi lontana e vicina. Il Luna Park. E Bligny. Andata e ritorno. E a scuola, con qualcuno che derideva il piccolo francese che parlava poco italiano e conosceva meglio il dialetto. P, come poco o niente, come pochi soldi e tanto lavoro. Tanto sudore per sbarcare il lunario. Allora neanche la cittadina di Souvigny e il borgo di Meillers, apparivano come un luogo fiabesco, come una soluzione di sopravvivenza alla povertà, alle desinenze amare della guerra, anzi. Il viaggio, tra Parigi e Tolone, appariva come spazio esistenziale di riflessione e solitudine. Tolone, la sabbia, il porto d’inverno, la pioggia e la neve.

Questa volta, però, c’è stata sia l’andata che il ritorno. Gli occhi legati al finestrino del treno. I vagoni, stazione dopo stazione, osservati, contati e misurati, come giovani apprendisti geometri. La bottiglia dell’acqua, l’ultimo pezzo di pane francese. L’odore della pietra viva nei capelli, sulla pelle, nel naso, sì l’odore permaneva, come una ferita invisibile, come un piccolo graffio interiore, con tanti tentativi per dimenticarlo. Dimenticare Meillers. Dimenticare Souvegny. Andare verso l’Abbazia benedettina di Fleury. Poi a Parigi, tra la folla e le stradine di Montparnasse, il cimitero e il mulino senza le sue vele per poter finalmente incontrare Giuseppe de Nittis.

Il teatro delle pietre era incancellabile, immutabile nella sua giovane luce, con l’odore di polvere da sparo, con il timore che qualche pietra potesse colpire l’uomo che accendeva la miccia posata sulle mine per far saltare le pietre in aria. Agli occhi di un bambino, tutto appariva grande e sterminato. Come il teatro delle pietre: un deserto bianco, infinito, sembrava non avesse un orizzonte. Tuttavia, osservandolo con attenzione si notava un orizzonte bianco, di un bianco agghiacciante, sempre pronto a saltare in aria, per far emergere un altro bianco, più feroce, più diabolico e inquietante.

D’inverno, solo il bianco immacolato della neve riusciva a tenergli testa. Mentre i bambini restavano a casa e le stufe a legna emanavano l’odore di legna fresca, appena bruciata e la polenta, la sera, faceva capolino sul tavolo, con i piatti decorati da vele azzurre.

Erano quelli i momenti in cui, qualcuno diceva la sua opinione sulla città lasciata, e qualcun altro aggiungeva le poche righe lasciate dall’ultima lettera della nonna che diceva che tutti stavano bene, che qualche cugina si era sposata ed era nato qualche piccolo bambino. Mentre l’Ofanto scorreva, furioso, giovane e l’acqua aveva un colore verde topazio.

Giuseppe Lagrasta

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Giuseppe Lagrasta è uno studioso di management scolastico e di innovazioni didattiche. Si è occupato di Letteratura del Novecento pubblicando articoli e saggi su: Italo Calvino, Elio Vittorini, Tommaso Landolfi, Dino Buzzati, Gianni Rodari. Pubblica poesie, favole e filastrocche. Dirige dal 2009 la rivista di poesia e critica letteraria “La scrittura meridiana”. Ha svolto il ruolo di Dirigente Scolastico presso il Liceo Classico, Liceo Musicale, Liceo delle Scienze Umane, “Alfredo Casardi” di Barletta (BT).